La famigerata domanda aggressiva accompagnata da uno sguardo cattivo: “vuoi che ti spacchi la faccia”? ha un enorme effetto stressante. Vengono prodotti degli ormoni i quali causano reazioni fisiche e psichiche inevitabili.
Un insegnante di autodifesa che prende sul serio il suo compito, deve essere capace di spiegare perché l’adrenalina ci paralizza prima del combattimento, e come fare a gestire questa inevitabile paura in modo che ci diventi utile.
Per questo è molto importante conoscere, non solo la psicologia dell’aggressore, ma anche la psicologia dell’aggredito; la nostra psicologia. La necessità di comprendere e di prevedere le nostre reazioni di fronte al pericolo assume quindi un’importanza ancora maggiore di qualsiasi conoscenza tecnica o psicologica degli altri. Conoscere se stessi, quindi.
Il corpo è dotato di due distinti sistemi di protezione , entrambi essenziali per la difesa della vita. Uno è il sistema immunitario, che ci difende dalle minacce interne che hanno origine sotto la pelle, come quelle causate dai batteri e virus.
Il secondo sistema di protezione che abbiamo mobilita la difesa dalle minacce “esterne” e si chiama asse ipotalamico-ipofisarico-surrenalico (HPA). Quando l’ipotalamo percepisce una minaccia ambientale chiama in causa l’HPA inviando un segnale all’ipofisi o ghiandola pituitari, secernendo un fattore di distacco di corticorroporrina (CRF) il quale attiva speciali cellule dell’ipofisi inducendole a secernere degli ormoni adrenocorticotropici (ACTH) nel sangue. Gli ACTH a loro volta raggiungono le ghiandole surrenali, dove fungono da segnale per attivare la produzione degli ormoni surrenali (adrenalina, noradrenalina, endorfine) i quali ci preparano al Fight or flight (combatti o fuggi, il più delle volte fuggire). Questi ormoni costringono i vasi sanguigni forzando il sangue, fornitore di energia, ad irrorare piuttosto i tessuti delle braccia e delle gambe, le parti cioè dell’organismo che ci consentono la fuga o l’attacco. (Bruce H. Lipton; la biologia delle credenze, macro edizioni, 2006)
Ma perché davanti ad un aggressore che ci minaccia di spaccarci la faccia si rimane paralizzati? Non dovrebbe accadere di essere più preparati all’azione?
Immaginate di avere mal di testa e sapete che le solite 20 gocce di quella medicina vi aiutano; ora però ne prendete 50, anzi 80. Accadrà che starete peggio di prima in quanto vi sarete intossicati.
Ora torniamo “sul campo” e di fronte abbiamo il nostro aggressore con la sua minaccia, il nostro corpo ci sta preparando al fight or flight ma non siamo certi di dover attaccare, forse, “si riesce ad evitare, penso”, o “forse la smette e mi lascia in pace”, o “ ho paura di fargli male”.. . Qualunque siano i nostri pensieri il tempo trascorre (stiamo parlando ovviamente di una manciata di secondi) e se non sappiamo come interrompere l’assunzione di questa “medicina” che mi fa bene solo a dosaggi giusti, fra un po’ la mia amica paura che mi ha fornito madre natura per la sopravvivenza, diventerà panico, facendo sì che l’aggressore ci attacchi senza nemmeno che noi ci potessimo renderci nemmeno conto.
Cercherò di far comprendere il concetto con un altro esempio: se mettiamo una fiamma vicino ad un recipiente chiuso si accumulerà pressione nel suo interno; se creiamo una valvola di sfiato la pressione aumenterà meno, meglio ancora se tale valvola la mettessimo in direzione della fiamma (causa dello stress)ottenendo un duplice effetto. Il nostro obiettivo è quello di saper creare la giusta “valvola di sfogo” nel contesto reale. E’ chiaro che noi non potremmo fare i saltelli sul posto ed enormi escursioni respiratorie diaframmatiche per non far accumulare “la nostra medicina”, per cui il compito di un serio allenamento è di imparare a gestire la paura con una adeguata e realistica preparazione.
La paura nasce da un “non-conoscere” e da un “non- saper controllare”, per questo è importante avere la giusta conoscenza teorica abbinata ad uno specifico allenamento.
Il nostro cervello ha percepito una situazione di pericolo estremo (reale o no che sia), e a tutto ciò che è nuovo, reagisce per riflesso con la decisione di fuggire o combattere e per avere una reazione idonea è importante conoscere quali sono le reazioni che stanno accadendo nel corpo.
L’attivazione dell’asse HPA interferisce con la capacità di ragionare lucidamente. L’elaborazione delle informazioni nella corteccia prefrontale, il centro delle facoltà del ragionamento e della logica, è molto più lenta dell’attività riflessa controllata dal rombencefalo. In una situazione di emergenza, più è rapida l’elaborazione delle informazioni e più probabilità ha l’organismo di sopravvivere. Gli ormoni surrenali dello stress restringono i vasi sanguigni del proencefalo, riducendone la capacità operativa. Inoltre, gli ormoni reprimono l’attività della corteccia cerebrale prefrontale, il centro dell’attività cosciente e volitiva. Nelle situazioni di emergenza, il flusso sanguigno e gli ormoni attivano il rombencefalo, la sede dei riflessi di sopravvivenza che controlla il comportamento fight or flight. Se da un lato è necessario che i segnali di stress si sovrappongono all’attività più lenta della mente conscia allo scopo di aumentare le possibilità di sopravvivenza, dall’altro ciò avviene ad un prezzo di una minore consapevolezza e di una ridotta capacità di ragionamento. (Bruce H. Lipton; la biologia delle credenze, macro edizioni, 2006)
E’ questo il motivo per cui la maggior parte delle arti marziali non funzionano in un contesto reale in quanto non si riesce ad accedere al nostro bagaglio tecnico di decine di tecniche “mortali” che gli insegnanti (non me ne vogliano) o non si rendono conto, o lo sanno e continuano consapevolmente ad insegnare; tecniche impossibili da attuare realmente. Non parliamo poi di quelli che insegnano le tecniche di disarmo da coltello facendo credere che funzionano senza il molto probabile rischio di essere affettati. Personalmente li paragono a medici fasulli che prescrivono medicine false.
Si deduce quindi che una vera autodifesa deve essere il più possibile semplice ed istintiva, per cui l’allenamento deve essere improntato nel creare movenze al corpo che non necessitano di pensare; le tecniche devono essere “attrezzi” che creano automatismi sensati, ed un vero insegnante che si rispetti non deve togliere la spontaneità ad uno studente ma lavorare su di essa, personalizzando il più possibile l’allenamento.
Ma quali sono i sintomi della sindrome del fight or flight?
· Bocca secca
· Voce strozzata e tesa
· Effetto tunnel, che creando una visuale periferica compromessa, fa dimenticare la possibilità che insieme al nostro probabile aggressore ci siano gli amici
· Diminuzione della percezione uditiva, effetto analogo a quello della vista
· Diminuzione della percezione dolorifica dovuta alla produzione di endorfine
· Errata percezione del tempo
· Perdita della cosiddetta “sensibilità” di svolgere quindi lavori “fini”
· Percezione al di là del corpo; capita di vivere l’esperienza dell’aggressione quasi come se l’evento stesse accadendo ad un’ altro
· Tachicardia, per effetto dell’adrenalina
· Stimolo a dover evacuare o urinare, per alleggerire il corpo e scappare meglio
· Occhi sbarrati, l’adrenalina determina la dilatazione delle pupille per vedere meglio creando il suddetto effetto tunnel
· Sorridere dalla paura
· Movimenti improvvisi degli occhi, correlato all’effetto tunnel
· Ginocchia tremanti
Per litigare ci vogliono due persone, con questo non voglio dire che hanno il 50% di colpa entrambi, ma ognuno ha la sua dose di colpa, dove per “colpa” intendo anche quella di aver mostrato paura rendendo più determinato il probabile aggressore ad attaccare. Più uno ha paura, più l’altro si carica di coraggio, è una bilancia. Anche gli squali hanno paura prima dell’attacco. Se non l’avessero attaccherebbero subito, invece prima gli gira intorno alla preda con cerchi sempre più a spirale e se la preda mostra la volontà di non subire l’attacco reagendo immediatamente, lo squalo desiste e si sposta da un'altra preda che non gli rappresenta un pericolo; ma se non reagisce segue la cosiddetta fase dei tentativi nella quale lo squalo dà una piccola spinta col muso. si vuole rendere sempre più conto di essere un predatore e più la vittima non reagisce e più aumenterà la determinazione ad attaccarlo. Se la vittima decidesse di reagire allora, sarà tardi perché ormai lo squalo si è convinto di essere un predatore, la cosiddetta escalation di violenza è partita, se all’inizio gli sarebbe bastato poco per fermarla, poi sarà tardi.
Lo stesso accade tra gli uomini con la cosiddetta fase tattile o delle spinte, ma che in realtà comincia già prima, dalla fase visuale e verbale.
Per questo anche chi crede che non reagire è la migliore soluzione, purtroppo rischia nella stessa maniera di chi è eccessivamente reattivo.
E’ indispensabile quindi un allenamento alla de-escalation per la prevenzione del conflitto ed acquisire una autostima che ti dia una pace interiore da poter vivere la situazione pericolosa controllando le emozioni. Imparare ad essere rilassante, saper comunicare, porre dei limiti, intimorire, essere dominanti e naturalmente pronti e capaci ad affrontare l’aggressore nel caso ci attacchi.
Con molta probabilità, se uno ha intenzione di aggredire si accorge se ha di fronte una persona sicura di sé. L’aggressore cerca quasi sempre una vittima e non un combattimento; un comportamento assertivo soprattutto a livello corporeo, riesce facilmente a fermare la lite.
Estate 2009 ed ero seduto fuori ad un bar con amici, accanto a me si era seduto da poco un tipo che percepivo con la coda dell’occhio mi guardasse continuamente, confermato ovviamente, da alcuni rapidi sguardi diretti che feci. Conoscendo come la maggior parte delle liti avviene per uno sguardo durato un attimo di più, feci finta di niente. Me ne stavo per andare ed i miei amici,ignari del tutto, si alzarono per prima, dopo qualche secondo mi alzai io in quanto trattenuto dal saluto di un amico che passò. Sentivo ancora questo sguardo oppressivo insistente e essendosi ri-incrociati i nostri sguardi dovetti chiedergli: “ci conosciamo?” sembrò una bestemmia, mi venne incontro investendo il tavolino che aveva d’avanti e gridando in dialetto: “mi hai pestato il piede ed hai la faccia tosta di chiedermi se ci conosciamo!!!!” immediatamente mi scagliai addosso con le mie mani in avanti ad un millimetro dalla sua faccia convinto ad attaccare ma lui si impietrì, quindi desistetti in quella situazione, tesissimo a tal punto che se un soffio di vento gli avesse mosso i capelli l’avrei attaccato, e l’invitai con tono e sguardo minaccioso ma con termini “gentili” a ri-sedersi immediatamente. Anche se non immediatamente tornò a sedersi e continuando a recitare la parte del duro per un altro po’, ma nello stesso tempo palesemente intimorito.
Sono certo che la sua intenzione era di farmi la faccia nuova, per cui ritengo che non è impossibile fermare un’escalation di violenza, a meno che uno non sia sotto l’effetto di sostanze quali droghe o alcol.
Ricordo bene che ho avuto molti dei sintomi sopra descritti, per un attimo anche l’effetto tunnel compreso il fatto che in quel momento sembrava molto più grande di quanto lo era realmente.
Quando la situazione si calmò, ed io raggiunsi i miei amici che non si erano resi conto di niente, l’orgoglio (altro nemico insieme all’ego) cercava di impossessarsi di me trasmettendomi desideri rissosi, avevo la rabbia dell’ingiusto , ma so benissimo che anche se stai male, è pur sempre il male minore rispetto a quello che avrei avuto dopo la rissa. Per questo ho fatto la cosa che ho ritenuto più saggia di andarmene da quel posto, ma,confesso, non senza difficoltà.
Ho sempre sostenuto che la teoria senza la pratica non serve a nulla, e se avesse prevalso il mio orgoglio, quando ormai la situazione non era più acuta, non sarei stato coerente con quello che cerco di trasmettere ai miei allievi.
Ho capito che la paura è un fenomeno naturale che colpisce tutti, sia uomini che animali di cui non vergognarsi, anzi bisogna imparare ad accettare questo fenomeno come proprio.